Parto in casa

Durante la quarta gravidanza mi era stato proposto di partorire in casa, ma la preoccupazione per il gruppo sanguigno, RH negativo, mi fece desistere. Inoltre, per la prima volta, mi avevano dato la speranza di riuscire ad allattare mio figlio ed essendo per me una grandissima gioia, scelsi di godermi l’allattamento più che potevo e mi protesi verso questa mia prima esperienza, rivelatasi unica e particolare.

 

Quando seppi di aspettare la quinta figlia, con mio marito Antonio, decidemmo di affrontare l’esperienza del parto in casa.

Fui seguita durante tutta la gravidanza, dall’ostetrica Luisa che mi avrebbe poi aiutata per il parto. Incontrai solo due volte il ginecologo, che era in contatto con le ostetriche dell’associazione “Marea”, specializzate in questo ramo. Feci solo le ecografie necessarie e gli esami mensili del sangue per il discorso del gruppo sanguigno.

 

La gravidanza fu serena: tutta la famiglia pregava per questa bimba (sentivamo che era femmina) e si discuteva, si votava, si decideva per il suo nome. In preghiera, avevo osato chiedere al Signore che fosse femmina, bionda, con i capelli ricci e gli occhi azzurri, tutte cose che furono pienamente esaudite.

Mi sentivo leggera: non dovevo andare all’ospedale, non dovevo staccarmi dalla famiglia, non avevo la preoccupazione di dover lasciare i nostri figli e non ero preoccupata per il distacco, la gelosia dei fratelli, il rientro a casa. Avevo molta fiducia nelle ostetriche che mi davano sempre risposte esaurienti che sentivo giuste.

 

Bisogna chiarire che il parto in casa può avvenire solo se si rientra in determinati parametri di controllo, altrimenti non si può fare e questo mi faceva sentire sicura. Mi fu consigliato che cosa mangiare per evitare la diminuzione di ferro, poiché è uno dei valori più importanti per partorire a casa.

 

 Dal settimo mese di gravidanza, mi fu data la reperibilità della mia ostetrica ed in casa iniziammo a preparare tutto l’occorrente. Nella mia grande serenità, avevo solo la preoccupazione di non saper riconoscere i giusti dolori del travaglio. Non volevo far intervenire le ostetriche prima del momento giusto, sapevo che avrebbero dovuto prendere ore di ferie, se si fosse verificato durante il loro orario di lavoro.

 

Arrivò finalmente il giorno tanto atteso. Era l’8 marzo di una primavera precoce e calda. Nel nostro giardino abbiamo un albicocco e, cosa anomala, vi era un unico lungo ramo fiorito rivolto verso la camera matrimoniale, dove avrei partorito; anche questo contribuì alla mia serenità perché mi sembrò un segno di buon auspicio e quella fioritura anomala non si è mai più verificata.

 

Alle sei del mattino iniziai ad avere i dolori del travaglio, ma uscii ugualmente a fare tutte le spese, accompagnata dal nostro primo figlio, Diego. Verso le ore dodici, sentii dei dolori molto forti con spinte naturali e mi decisi a chiamare mio marito e le ostetriche che arrivarono quasi subito. Salii in camera, mio marito mi aiutò a mantenere una posizione naturale, ma non conclusi nulla. I dolori erano forti, ma le spinte non c’erano più. Sentii al piano di sotto tutti i nostri figli arrivare dalla scuola: la mia mamma, già con noi da cinque giorni, li informava che non dovevano disturbare perché stava per nascere la sorellina. Potevo percepire i loro gridolini di gioia, mentre noi eravamo in camera tranquilli.

 

Le ostetriche, molto discrete, non ci fecero notare la loro presenza e con mio marito Antonio, riuscimmo a pregare liberamente e a tranquillizzare la bimba per la sua nascita. C’era qualcosa però che mi bloccava. Cominciai a sentirmi imbarazzata, le ore passavano, i dolori c’erano, ma la bimba non nasceva.

 

Finalmente compresi che ero io a dover prendere in mano la situazione e chiesi che cosa sarebbe successo se mi fossi impegnata io a spingere anziché aspettare le spinte naturali. Mi fu risposto tranquillamente, che sarebbe semplicemente nata la bambina. Capii che ero mentalmente ospedalizzata, che non sarei riuscita a partorire in nessun’altra posizione se non a letto e così iniziò il momento dell’espulsione. Antonio mi sostenne dietro le spalle e le ostetriche mi parlavano in modo cheto, dandomi tranquillità; per tre volte la testina arrivò in posizione, ma ritornò indietro. Finalmente, con una spinta più forte, uscì la testina di Michela. Non fecero nessun taglio, ma la mia pelle, avendo perso l’elasticità naturale a causa dei quattro tagli precedenti, era molto tesa e sentii un gran bruciore. Con sollecitudine, l’ostetrica assistente, corse a prendere dell’acqua e facendomela scivolare con una spugna sulle cicatrici mi procurò un gran sollievo, mentre con l’altra mano mi massaggiava la gamba indolenzita. Che bello! Mi sentii seguita e, oserei dire, coccolata. Mai avuto tanta fortuna.

 

In pochi minuti si concluse l’espulsione e mi assicurarono che Michela non aveva sofferto, perché nata con la camicia (cioè senza rottura del sacco) ed era per quello che continuava a rientrare. Me la posarono sul ventre e potei attaccarla al seno prima del taglio del cordone ombelicale e lei si attaccò avidamente: sembrava avesse fatto solo quello per tutti i nove mesi. Erano le 17,35, tutto era tranquillo e beato, persino la casa era silenziosa, come in segno di rispetto. Antonio era emozionantissimo perché per la prima volta aveva assistito alla nascita di un nostro figlio. Nel silenzio gustai la sua presenza, le sue braccia, il suo calore, mentre teneramente accarezzava e chiamava dolcemente Michela. La piccola aveva già aperto un occhietto e nel sentire la voce del papà, cercò di aprire anche l’altro. Dopo alcuni sforzi riuscì a spalancarli bene entrambi e, sempre succhiando al seno, guardò verso il papà, ascoltò le carezze e la sua voce che la salutava con infinita tenerezza ed amore, sussurrando il suo nome. Anche le ostetriche furono coinvolte da questo momento intenso, e per un po’ si dimenticarono di tagliare il cordone ombelicale.

 

Poi Antonio chiamò i nostri figli che, con un po’ di riluttanza, entrarono nella camera. Mi ricordo la faccina di Nicola, aveva quasi quattro anni, (sosteneva che la sorellina era brutta e l’avrebbe buttata via nel cassonetto dello sporco come avevano detto in TV): sembrava impaurito da un evento più grande di lui che non riusciva a comprendere. Quando scoprii Michela, la sua espressione cambiò ed un volto da prima stupito, meravigliato e gioioso poi, prese il sopravvento e la sua esclamazione ci fece scoppiare tutti a ridere. Subito l’atmosfera si distese, mancava solo Eliana che era andata a pattinare perché la sorellina non si decideva a nascere. Erano lì tutti attorno a noi, la mia famiglia più al completo di prima, era stupendo. Non mi ero staccata da loro, e loro da me. Non ero sola nel letto di un ospedale, con la bimba a sua volta staccata da me, nel nido (perché allora non c’era la possibilità di gestire il nascituro in camera). Questa volta eravamo tutti insieme a vivere questo evento che donava pace, serenità e gioia profonda nel cuore.

 

I nostri figli ci lasciarono, Antonio prese la bimba e, con l’ostetrica di supporto, la pulirono, la vestirono e Michela donò al suo papà il suo primo regalo (lascio a voi immaginare cosa fosse). Non avevo mai visto Antonio così felice!

 

Anche l’espulsione della placenta non diede problemi e per la prima volta vidi com’era fatta. Luisa m’invitò a toccarla, mentre rispondeva a tutte le mie curiosità. Inizialmente ero riluttante, poi mi lasciai convincere e la toccai. Rimasi sorpresa da questo "sacco vuoto ancora caldo" che non era viscido, ne sporco di sangue come io credevo. Il cordone ombelicale, all’attaccatura della placenta, era caldo, morbido e pulsava ancora; mentre all’altra estremità, era freddo e cominciava ad irrigidirsi. Nonostante alcune lacerazioni interne, non servì sutura, perché non ero in contatto con altri tipi di germi, se non quelli domestici, a cui ero abituata..

Le ostetriche mi proposero e mi fecero una doccia veloce, rimasero con me ancora per due ore e quando mi lasciarono mi sentivo una regina, pulita, profumata e tanto rilassata. Mi ricordo che, preoccupata per la loro partenza, chiesi cosa avrei fatto senza di loro; risero divertite e mi risposero:

“Allatta normalmente. Sei a casa tua, tutto è andato bene. La bimba è perfetta. Non c’è stata emorragia. La nostra reperibilità c’è l’hai ancora per altri 10 giorni, sia per te sia per la bimba. Domani mattina saremo ancora qui per vedere come state e sarà così anche per i prossimi giorni; perciò, mangia e stai serena, sei stata brava”. Mi schioccarono un grosso bacio e se n’andarono accompagnate da mio marito. Per me che avevo vissuto gli altri quattro parti nella freddezza dell’ospedale, mi sembrò di essere in un altro mondo irreale.

 

In quel momento, con Michela tra le braccia, pur provando gioia, sentii anche un profondo senso di solitudine. Il sole era tramontato, ma la luce della stanza mi permetteva di intravedere quell’unico ramo fiorito della pianta d’albicocco che mi aveva donato serenità. Antonio rientrò nella stanza, mi abbracciò forte, forte. Mi ringraziò ed insieme lodammo il Signore per tanta meraviglia: mai avremmo potuto immaginare la gioia che avevamo vissuto con la nascita di Michela.

Dopo poche ore riuscivo già a muovermi liberamente, senza dolore.

 

 Michela nacque martedì 8 marzo1994 alle ore 17,35, pesava kg. 3, 700 e il sabato mattina era già aumentata di 340 gr. Potendo condurre da subito l’allattamento a richiesta, non ebbi i seni turgidi perché li svuotati continuamente, e la bimba non subì il famigerato “calo fisiologico”.

 

Anche Andrea, l’ultimo dei nostri sei figli, nacque in casa, ma per lui fu tutta un’altra avventura, anche se simile. Ogni parto è sempre diverso e unico, con una particolarità specifica e singolare che ti rimane impressa nel cuore.